Si parla di divorzio congiunto o separazione consensuale quando i coniugi raggiunto un accordo sulle condizioni depositano un ricorso sottoscritto e quindi accettato liberamente da entrambi.
Ma cosa succede se uno dei coniugi “cambia idea” successivamente o in sede di udienza?
In dottrina e giurisprudenza si discute circa la possibilità di revocare il consenso prestato in sede di separazione consensuale e di divorzio su domanda congiunta.
La Cassazione civile con ordinanza 19540 del 24.07.18, confermando un orientamento prevalente, ha negato la possibilità di revoca del consenso nella sola ipotesi di divorzio depositato congiuntamente. Con la citata ordinanza la Corte precisa che il Giudice può procedere ad emettere sentenza di divorzio nonostante la revoca del consenso espressa da una parte riformando così la sentenza della Corte d’appello che, nel caso concreto, a conferma di quella del Tribunale aveva dichiarato improcedibile la domanda .
In ipotesi di separazione consensuale invece prevale l’interpretazione secondo la quale la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi comporta il venir meno del requisito indispensabile per l’accoglimento della domanda, rappresentato dall’accordo tra le parti. A tale conclusione si giunge argomentando che il ricorso per separazione consensuale è espressione dell’autonomia dei coniugi di autodeterminarsi per cui il Tribunale sarebbe chiamato solo ad attribuire efficacia all’accordo stipulato tra le parti. La procedura si chiude infatti con un decreto di omologa. Nella separazione il coniuge ben può revocare il consenso prima che intervenga l’omologazione tant’è che in udienza presidenziale deve presentarsi a confermare il consenso prestato.
Nel caso di ricorso per lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili, presentato congiuntamente, non valgono gli stessi principi, poiché diversi sono i presupposti e le norme processuali applicabili al procedimento.
Secondo la recente Cassazione, nel divorzio su domanda congiunta è comunque richiesta una pronuncia costitutiva, fondata sull’accertamento dei presupposti richiesti dalla L. n. 898 del 1970, art. 3. In effetti lo stesso legislatore ha inquadrato la separazione consensuale tra i procedimenti di volontaria giurisdizione mentre i procedimenti di divorzio a domanda congiunta appartengono alla categoria della giurisdizione contenziosa ordinaria tant’è che vengono definiti con una sentenza.
L’accordo dei coniugi per il divorzio – secondo la Cassazione – ha una doppia natura:
- ricognitiva, con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale, che sono oggetto di verifica da parte del tribunale;
- negoziale, per quanto riguarda i figli e i rapporti economici, nel cui merito il tribunale non deve entrare, a meno che le condizioni pattuite non siano in contrasto con l’interesse dei figli minori e del coniuge economicamente debole.
Per questo motivo la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi, è irrilevante sotto il primo profilo, poiché il ritiro della dichiarazione ricognitiva non impedisce al tribunale la verifica dei presupposti necessari per la pronuncia di divorzio e l’emissione della sentenza.
Rispetto, invece, all’accordo di tipo negoziale intervenuto tra le parti in ordine alle condizioni del divorzio la revoca è inammissibile.
La Cassazione esclude, quindi, la possibilità di ripensamenti unilaterali, una volta scelto l’iter processuale, perché fondato su iniziativa comune e paritetica, rinunciabile soltanto da parte di entrambi i coniugi (Cassazione civile sezione VI ordinanza 19540 del 24.07.18) a meno che la domanda non sia frutto di errore, violenza o dolo.
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